Energia

L’idrogeno incontra la carta

L’idrogeno (H2) è un vettore energetico su cui si ripone grande fiducia per il raggiungimento degli obiettivi europei e globali di decarbonizzazione.

Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si promuovono e si dedicano risorse per le applicazioni industriali dell’idrogeno da fonti rinnovabili, in settori industriali “hard to abate”, ad alta intensità energetica, tra cui il settore carta può ascriversi.

di Paolo Carmenati

I convegni e le news riferiscono che le principali aziende di tissue, carta e imballaggi lavorano sugli sviluppi dell’utilizzo dell’idrogeno, come vettore energetico, con progetti mirati a testare la misura in cui l’idrogeno, da fonti rinnovabili, può sostituire il gas naturale nei processi di produzione della carta, senza compromettere la qualità del prodotto.

Nuovi combustibili per le turbine

I nuovi impianti di cogenerazione, per produrre energia e calore in cartiera, possono già utilizzare turbine a gas predisposte per funzionare con combustibili più eco compatibili, tra cui l’idrogeno, nel rispetto delle normative.

Si possono far funzionare le cappe per l’essiccamento presenti nelle macchine continue del tissue, aggiungendo gradualmente idrogeno alle loro attuali forniture di energia.

Una cartiera europea sta partecipando a un progetto di ricerca sull’accumulo di energia rinnovabile, installando nello stabilimento un impianto power-to-hydrogen-to-power che utilizza la portata in eccesso dalle fonti di energia rinnovabile per generare idrogeno verde con l’elettrolisi. Idrogeno che, compresso e immagazzinato in serbatoi, è poi riconvertito in energia elettrica, nei periodi di forte domanda, alimentando una turbina a gas.

Caratteristiche e criticità

Per un’implementazione sicura delle tecnologie a idrogeno è utile conoscerlo meglio, rendendo note anche le criticità relative al processo di combustione con tenori crescenti di H2.

L’idrogeno (H2):

– è il gas più leggero conosciuto, il suo peso specifico è 0,0899 kg/m3 – è 14,4 volte più leggero dell’aria – e si diffonde rapidamente nell’aria orizzontalmente, ma all’aumentare della temperatura la sua densità diminuisce, muovendosi verso l’alto;

– è il più diffuso elemento nell’universo, ma sulla terra è combinato con altri elementi. In forma libera, allo stato molecolare, sul nostro pianeta è molto raro, se lo si vuole utilizzare è necessario sintetizzarlo scomponendo le molecole in cui è presente in forma combinata;

– è un gas incolore, inodore e insapore, non percepibile dai sensi umani. Non è tossico ma agisce come un asfissiante, sostituendosi all’ossigeno nell’aria;

– riesce a penetrare nei materiali normalmente impermeabili agli altri gas;

– è molto leggero anche allo stato liquido avendo un peso specifico di 70,99 kg/m3;

– il suo punto di ebollizione è -252,77 °C, evapora velocemente e forma circa 845 litri di gas per ogni litro di liquido;

– tra tutti i combustibili e carburanti, l’idrogeno possiede la maggiore densità energetica (MJ/kg): 1 kg d’idrogeno contiene la stessa energia di 2,1 kg di gas naturale o di 2,8 kg di benzina;

– in rapporto al volume, il potere calorifico (kWh/Nm3) dell’idrogeno è circa 1/3 di quella del gas naturale e circa 1/4 di quella della benzina.

L’idrogeno è estremamente infiammabile nell’aria, dove brucia con fiamma azzurrognola e fortemente calorifica (1.430 °C), reagendo con l’ossigeno per formare acqua: 2H2 + O2 = 2H2O. La temperatura della fiamma alla presenza di solo ossigeno sale a 2.830 °C.

Nella combustione in aria con fiamma libera, gli unici prodotti inquinanti che si formano sono gli ossidi d’azoto (NOx). Se la combustione avviene in un ambiente con solo ossigeno, l’unico prodotto della combustione è l’acqua.

Le fiamme generate dalla combustione d’idrogeno in aria non sono visibili a occhio nudo perché emettono radiazioni luminose nello spettro dell’ultravioletto, non visibili alla luce del giorno e che hanno un basso livello di calore radiante, a causa dell’assenza del carbonio, e quindi non surriscaldano le zone adiacenti.

Per questo motivo, è difficile identificare visivamente se una fuga d’idrogeno stia bruciando. Nella conversione a idrogeno è indispensabile un adeguamento dei rilevatori della fiamma nei dispositivi di sicurezza.

I limiti d’infiammabilità in aria dell’H2 sono espressi in: % vol.; il range delle concentrazioni entro cui l’idrogeno tende a bruciare in aria, è molto ampio, dal 4% al 75% in volume – il gas naturale dal 5% al 15%. L’energia necessaria per infiammarlo è molto bassa, ne basta circa 1/10 rispetto a quella necessaria per il GPL o per il metano; può innescarsi anche con deboli scintille – di origine elettrica, elettrostatica o meccanica.

La velocità di propagazione della fiamma è significativamente elevata, quella in aria è dieci volte maggiore di quella del gas naturale.

Il rischio incendi

Le perdite d’idrogeno generano un serio rischio d’incendi, che sono notevolmente diversi dagli incendi che coinvolgono altri combustibili. Poiché l’idrogeno è uno degli elementi più leggeri sulla Terra, quando all’aperto avviene una perdita, l’idrogeno si disperde rapidamente verso l’alto. Questo rende l’accensione meno probabile. Mentre l’idrogeno che fuoriesce all’interno di spazi confinati – piccole stanze non areate, container, recipienti ecc. – si raccoglie rapidamente inizialmente sul soffitto e alla fine li riempie. Si corre così il rischio di innescare la tipica esplosione da idrogeno, quando si miscela con aria, ossigeno o agenti ossidanti.

In caso di fuga i componenti delle miscele con idrogeno non si separano per effetto della gravità, quindi, non si ha un accumulo d’idrogeno in alto e un accumulo del gas inerte più in basso, ma la miscela si muove come un insieme nell’aria ambiente, spostandosi verso l’alto o verso il basso secondo la sua densità complessiva.

Essendo l’idrogeno inodore e incolore, il corretto adeguamento e/o posizionamento dei rilevatori del gas è la chiave per l’individuazione precoce di una perdita d’idrogeno.

Le barriere tecnologiche

Vi sono alcune barriere tecnologiche e alcuni degli adeguamenti tecnici necessari nella conversione del processo a idrogeno.

L’idrogeno provoca la corrosione e una conseguente maggiore fragilità quando entra in contatto con particolari metalli, per esempio alcuni tipi d’acciaio. In entrambi i casi c’è la riduzione della duttilità e della resistenza alla trazione del materiale. Il fenomeno dell’infragilimento è dovuto al posizionamento dell’idrogeno atomico fra gli interstizi dei grani della struttura metallurgica, provocando, localmente, forti stati tensionali che possono costituire anche innesco di rotture per sollecitazione a fatica.

In linea generale, a temperatura ambiente vanno bene: rame, ottone, alluminio e alcuni tipi di acciaio. Si sconsiglia l’uso di tubi e raccordi in ghisa, a causa della sua porosità che la rende permeabile all’idrogeno. Le bombole di acciaio per idrogeno compresso sono costruite con delle leghe particolari.

La temperatura di fiamma dell’idrogeno è superiore a quella del gas naturale tipicamente impiegato. Si richiede pertanto l’impiego di nuovi materiali e componentistica da adottare per la sua combustione tra cui: gli ugelli del bruciatore, del refrattario nei rivestimenti, che non sia permeabile all’H2 ecc.

Altre conseguenze dell’impiego di idrogeno sono le variazioni nelle caratteristiche di scambio termico degli apparecchi, qualora il processo preveda un opportuno dosaggio della trasmissione del calore con misurato equilibrio di trasmissione e irraggiamento o qualora il processo abbia una funzione essiccativa.

Nella combustione non è trascurabile l’incidenza sul processo dei maggiori volumi di acqua generati dalla combustione con idrogeno – a parità di potenza termica erogata –, specialmente per i processi dove l’energia termica si utilizzi per essiccare.

Con l’innalzamento della temperatura di combustione dell’idrogeno aumentano le emissioni di NOx in modo esponenziale. Queste devono essere controllate, intervenendo sui parametri di combustione con tecniche e regolazioni adeguate, per rispettare i limiti delle emissioni degli NOx.

Elettrolisi e l’idrogeno verde

Esistono molti modi per produrre l’idrogeno, ma quello a zero emissioni è l’elettrolisi dell’acqua. Un processo in cui il passaggio di corrente elettrica scompone l’acqua in idrogeno gassoso e ossigeno. Il fenomeno di scissione dell’acqua avviene in una cella elettrolitica, costituita da due elettrodi, uno positivo e uno negativo, collegati elettricamente, immersi in un liquido chiamato elettrolita e separati da una membrana. Una corrente continua a bassa tensione che la attraversa genera ossigeno gassoso all’anodo e idrogeno gassoso al catodo.

Un elettrolizzatore pressurizzato che si usa in ambito industriale non è un semplice dispositivo con due elettrodi in un serbatoio pieno d’elettrolita, ma è un sistema più complesso con vari sottosistemi e componenti. Le principali tecnologie degli elettrolizzatori impiegabili sono: l’alcalina (AWE) e quella a membrana protonica (PEM). Ambedue hanno stack – la cellula dell’impianto dove le molecole d’acqua sono scisse in ossigeno e idrogeno – con potenza nell’ordine dei MW.

L’elettrolisi permette di produrre idrogeno altamente puro che può classificarsi “verde”, solo se gli elettrolizzatori sono alimentati da sistemi di generazione dell’energia da fonti rinnovabili, come da:

– l’energia fotovoltaica, che sfrutta la fonte solare attraverso i pannelli solari che prendono la luce del sole e la trasformano in energia elettrica;

– l’energia eolica, che sfrutta le capacità cinetiche connesse al vento per convertire questa fonte in energia meccanica e, a sua volta, in energia elettrica;

– l’energia da impianti solari termodinamici, che sono assimilabili a centrali termoelettriche, in cui le caldaie a combustibile sono sostituite da un insieme di collettori solari che permettono di ottenere calore ad alta temperatura concentrando l’energia solare mediante sistemi ottici, rimpiazzando quindi i combustibili fossili con la fonte solare. La produzione di energia elettrica negli impianti solari termodinamici avviene attraverso cicli termodinamici in modo analogo alle centrali termoelettriche convenzionali.

Gli altri colori dell’idrogeno

Attualmente circa il 95% dell’idrogeno che si produce arriva da fonti fossili, incompatibile con gli obiettivi di emissioni zero. L’idrogeno, secondo com’è prodotto, assume denominazioni legate ai colori.

Si chiama idrogeno “grigio” se per produrlo si utilizza il metano. Il processo impiegato è lo steam reforming – si fanno reagire gli idrocarburi con acqua in un forno ad alta temperatura. Il processo immette una notevole quantità di CO2 in atmosfera, il rapporto in massa tra CO2 e idrogeno prodotto è pari a 22.

Assume la denominazione d’idrogeno “blu”, se l’anidride carbonica che risulta dal processo non è liberata nell’aria, bensì è catturata e immagazzinata. Quest’ultimo processo produttivo richiede, nella globalità, una quantità d’energia maggiore di quella già elevata richiesta dal precedente.

È di colore “marrone” l’idrogeno nel caso che per produrlo, con la tecnologia del reforming, si utilizzi il carbone. Mentre è “nero” se lo si produce dalla gassificazione del carbone.

La percentuale d’idrogeno verde rappresenta oggi solo il 5% della produzione dell’idrogeno mondiale, soprattutto perché attualmente il costo per produrlo è alto: dai 4 ai 6 euro per un chilogrammo d’idrogeno verde, contro l’1,5-2 di quello grigio o blu.

Lo stoccaggio

Poiché l’idrogeno è praticamente indisponibile allo stato elementare, sotto forma di molecola biatomica (H2), non può essere considerato una fonte energetica bensì un vettore energetico. Cioè un qualcosa cui si può fare ricorso per immagazzinare energia, trasformandola, successivamente, da una fonte all’altra. Con la possibilità di riconvertirlo anche in energia elettrica, in una cella a combustibile (fuel cell), un dispositivo elettro-chimico che permette di ottenere energia elettrica direttamente dall’idrogeno e dall’ossigeno atmosferico senza che avvenga un processo di combustione.

Lo stoccaggio dell’idrogeno avviene sostanzialmente in due forme:

– sotto forma liquida, in contenitori criogenici mantenuti a una temperatura prossima a quella di ebollizione dell’idrogeno (-253 °C). Questi tipi di contenitori sono utili per lo stoccaggio e il trasporto di grandi quantitativi d’idrogeno. Lo stoccaggio in forma liquida richiede l’impiego di contenitori isolati sotto vuoto che non possono comunque annullare completamente i possibili aumenti di calore che si traducono inevitabilmente in evaporazione dell’idrogeno liquido all’interno, con un incremento di pressione, quindi un rilascio dalle valvole di sicurezza;

– sotto forma gassosa, in tal caso, per lo stoccaggio in pressione si ricorre a bombole, contenitori o a cisterne, costruite con acciai speciali – in grado di non essere permeabili al gas e infragiliti dalla sua azione permeante – che possono mantenere pressioni di esercizio dai 200 ai 300 bar, in funzione del modello costruttivo, del materiale e dello spessore del contenitore.

Per l’immagazzinamento di maggiori quantitativi di gas H2 si utilizzano bombole e serbatoi capaci di lavorare in sicurezza alla pressione di 700 bar, per la loro realizzazione è stato necessario rivolgersi ai materiali compositi che utilizzano polimeri rinforzati in fibra di carbonio.

In previsione di un prevedibile più ampio impiego dell’idrogeno, in un modello di sviluppo da fonti decentralizzate, questo vettore energetico dovrà essere prevalentemente trasportato nei gasdotti esistenti o nuovi.

In questo periodo sono in corso test esplorativi con una miscelazione dell’idrogeno nella rete gas metano (blending), con un mix dal 5 al 10% di H2. Questo al fine di evidenziare i limiti delle reti di distribuzione derivanti dal maggior volume specifico dell’idrogeno e le eventuali perdite, specialmente dai giunti, conseguenti all’incompatibilità e all’infragilimento dei materiali, non tralasciando la verifica dell’idoneità dei sistemi di sicurezza.