Arte&Cultura

Origami passione inaspettata

Una passione scoperta nel mezzo del cammin e un’ispirazione che trae molto dal contesto giapponese e dal suo interesse per l’arte, il design, la musica, la fotografia e il cinema. Conosciuta grazie alla mostra Packaging Première, abbiamo intervistato Elisabetta Bonuccelli.

Elisabetta Bonuccelli. Foto IG @robertotavazzani.

Nata a Torino, marchigiana d’adozione, Elisabetta Bonuccelli vive e lavora Milano dal 2004. La sua non è stata una folgorazione sulla via dell’Origami da bambina, ma la passione per la carta è arrivata inaspettatamente, «per una fortunata concatenazione di eventi nella quale sono confluiti forzosi cambiamenti professionali, i miei studi da designer e tanti viaggi in Giappone». È stata allieva di Luisa Canovi che, da brava “sensei”, l’ha guidata nei suoi primi passi «tra monti, valli, pieghe rovesciate e orecchie di coniglio», fino alla decisione di dedicarsi all’arte dell’Origami da professionista.

Dal 2014 ha aperto @unokostudio spazio creativo dedicato ai suoi progetti di carta per eventi, installazioni e allestimenti, scatti fotografici, packaging, comunicazione ecc. Tra i sogni nel cassetto, poter continuare a vivere facendo quel che fa, che di questi tempi non è poco.

Parlaci di te e della tua scoperta “inaspettata” dell’origami…

«Non ho un percorso classico da origamista. Di solito si inizia da bambini e ci si appassiona strada facendo. Nel mio caso è stata una scoperta o meglio, una riscoperta, davvero tardiva visto che ho iniziato a studiare origami con Luisa Canovi a 46 anni suonati. Fino a quel momento avevo piegato cose abbastanza semplici e conosciute da tutti, le solite barchette, aeroplanini, ventagli ecc.

Sono approdata ai corsi di Luisa nel 2012, poco dopo essere stata messa in mobilità dall’azienda per la quale avevo lavorato negli otto anni precedenti come impiegata. Durante i corsi ho capito che l’origami poteva essere la perfetta sintesi di molte cose che avevo nel mio bagaglio di vita e da lì è partita l’idea di farne anche una professione».

«Un classico caso di forma suggerita dal tipo di carta, in questo caso una bellissima carta tradizionale giapponese acquistata a Tokyo qualche anno fa». Foto IG @robertotavazzani.

Che formazione hai avuto?

«Tecnicamente sarei una designer. Più precisamente, una “progettista di prodotti d’uso e di interni” (come recita il mio diploma preso al Cnipa – Centro sperimentale design di Ancona, oggi Poliarte). Poi, come succede spesso, nella vita ho fatto molte altre cose, totalmente distanti dalla mia qualifica. Direi che la mia formazione complessiva è passata in prevalenza attraverso attività a latere dei lavori che mi sono trovata a svolgere. Ho sempre avuto tanti interessi, arte, design, musica, fotografia, cinema, direi che il mio dna spirituale si è nutrito soprattutto di queste cose».

Nel tuo sito le opere sono divise tra “abstracta” e “imitation of life”. A cosa ti ispiri quindi nelle tue opere?

«Come nell’arte in generale, anche nell’origami le “famiglie” sono sostanzialmente due: figurativa e astratta. Ho una netta predilezione per l’origami astratto, più geometrico ed essenziale, ma l’ispirazione non segue delle regole precise o codificabili. A volte scatta la voglia di riprodurre la realtà, a volte preferisco affidare le mie idee, i miei concetti, a delle forme non collegate al mondo fisico. Per fare degli esempi concreti, la serie alla quale sto lavorando adesso, “Tortured Soul”, sfrutta le caratteristiche tecniche della carta (in particolare, la reattività della fibra) per dare vita a delle forme che – nella mia visione – rappresentano il contorcersi, il raggomitolarsi intorno al proprio nucleo più oscuro, rappresentato dalle pennellate di inchiostro giapponese o di china. Nel caso del gasometro o delle nature morte alla Morandi si tratta chiaramente di omaggi o citazioni. A volte è il tipo di carta che ti porta verso una direzione o l’altra».

Quali sono stati i tuoi maestri?

«Domanda difficile… Luisa Canovi, ovviamente. Tra i grandi del passato, metto sicuramente Shuzo Fujimoto. Tra i contemporanei Tomoko Fuse, soprattutto per i suoi lavori sulle spirali e Jun Mitani. E mi fermo qui perché sarebbero tantissimi».

«Il titolo si riferisce alla torsione delle fibre della carta, quasi a simulare un abbraccio, indotta dalla tecnica di piegatura utilizzata». Foto IG @robertotavazzani.

Un sito e nel sito un blog…

«Il sito è più una necessità che un desiderio. Ma ho voluto intenzionalmente che parlasse di me più per i progetti personali che per quelli su commissione. Naturalmente lavoro anche su richiesta, è una parte importante della mia professione ed è particolarmente interessante perché è una sfida continua, devi rispondere alle esigenze specifiche del cliente, è un po’ come la differenza tra scrivere un tema o un romanzo: un giorno devi piegare un gadget aziendale a forma di dente, un altro creare un origami da un logo aziendale, un altro ancora la classica cascata di gru “che fa tanto Giappone”…

Il blog… vorrei avere più tempo da dedicargli. Ho voluto che ci fosse un po’ per raccontare il mio lavoro, un po’ per raccontare me. Con le giornate di sole 24 ore è un’impresa ardua, ma non demordo».

Ma cosa significa @unokostudio?

«Tutto parte da due passioni: quella per un piatto giapponese che si chiama Okonomiyaki e quella per i Depeche Mode, gruppo cult della scena musicale elettronica. Quando mi iscrissi al forum italiano dedicato alla band ho scelto come nickname Unokonomiyaki (ovvero un/1 okonomiyaki). Che ovviamente gli altri utenti hanno poi abbreviato in Unoko. Mi ci sono affezionata e così l’ho usato per la denominazione del mio studio. Perché la musica, in un modo o nell’altro, permea sempre le mie scelte».

Qual è l’opera a cui ti sei affezionata di più?

«Come dicono tutti, l’ultima! Scherzi a parte, una alla quale sono particolarmente affezionata è quella che si vede nell’homepage del mio sito, “J.A.”. Tornando a quello che dicevo a proposito della mia formazione, io ho studiato design industriale in una scuola che si ispirava – ovviamente – tantissimo alla Bauhaus. Non solo per i contenuti ma anche per lo stile didattico. Amando molto l’origami astratto, era inevitabile tornare alla figura di Josef Albers, che alla Bauhaus teneva i corsi preliminari. Lui chiedeva agli studenti di sperimentare con diversi materiali e tra questi c’era anche la carta. In rete ci sono tante immagini che mostrano i risultati di questi “esercizi”, sono forme estremamente interessanti anche oggi, dopo quasi un secolo. Albers era anche un artista e tra le sue opere più celebri c’è la serie “Omaggio al Quadrato”. Mi sembra superfluo sottolineare quanto il quadrato sia legato all’origami, dato che milioni di modelli partono da un foglio di carta di questa forma. Con “J.A.” ho voluto rendere un tributo a questo grande maestro, riproducendo con la tecnica origami uno dei suoi quadri».

«J.A. sta per Josef Albers. Tra chi pratica origami astratto è un grande punto di riferimento. Per me è un po’ un concentrato di simboli e contenuti. L’origami nella foto, realizzato con un unico foglio, senza colla né tagli, riproduce uno dei quadri della famosa serie Omaggio al Quadrato». Foto di Roberto Tavazzani – IG @robertotavazzani.

Perché la carta?

«Ha delle caratteristiche uniche, è forte e fragile al tempo stesso. È un materiale molto versatile, facilmente disponibile, relativamente economico. Utilizzandola per l’origami realizzo cose che hanno una struttura fortemente determinata dalla geometria e dalla matematica, due “ingredienti” che infondono naturalmente eleganza, se così si può dire. Un foglio di carta, di una bella carta, già con un solo accenno di piega è di per sé una bellissima scultura».

Hai preferenze di tipologia o caratteristiche?

«Mi piaccio le carte di una certa consistenza, quelle che io definisco “croccanti”. Sono le carte più adatte alle tecniche che preferisco come la corrugazione o la tassellazione, che sottopongono la carta a un notevole stress, e devono anche poter essere inumidite, nel caso voglia utilizzare la tecnica del wet folding. Direi che le carte per acquerello sono adatte, bellissime quelle fatte a mano. Ottima anche la Elephant Hide o Pelle d’Elefante. Ovviamente, nel caso dei lavori su commissione i criteri di scelta sono più ampi e diversi, dovendo incontrare le richieste del cliente in fatto di colore, texture e grammatura finalizzati alla realizzazione del progetto».