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Il riciclo della carta e le microplastiche

Le microplastiche, piccole e leggere, sono ubiquitarie e si trovano in tutte le fonti terrestri, atmosferiche e idriche, impattando negativamente su ambiente e salute umana. Qual è l’apporto dei prodotti cartari da questo punto di vista? Uno studio preliminare di Innovhub SSI ha cercato di indagare su questi aspetti.

Definite nel 2019 da Echa – l’Agenzia europea per le sostanze chimiche – come particelle solide con dimensioni micrometriche e contenenti polimeri a cui possono essere stati aggiunti o meno degli additivi, le microplastiche sono caratterizzate dall’essere persistenti nell’ambiente, in quanto non biodegradabili, e sono suscettibili di ulteriori degradazioni fino a dimensioni nanometriche. Possono essere, inoltre, facilmente ingeribili dalla fauna ittica e terrestre, quindi trasferibili attraverso la catena alimentare.

Costituiscono dunque un pericolo per l’uomo e considerare la loro presenza o il loro possibile trasferimento attraverso i prodotti è una preoccupazione che deve interessare anche il settore cartario.

Innovhub SSI ha presentato al Congresso Aticelca 2022 uno studio preliminare condotto presso i propri laboratori sulla presenza delle microplastiche nei prodotti cartari e sul loro potenziale rilascio da parte di componenti polimerici presenti nei prodotti durante il processo di riciclo.

Le microplastiche e i settori produttivi

Le microplastiche possono essere suddivise in due grandi categorie: primarie e secondarie. «Le primarie sono progettate con una funzionalità specifica per essere introdotte in prodotti commerciali, per esempio le microbits nei prodotti esfolianti cosmetici. Mentre le secondarie si generano dal deterioramento di plastiche di grandi dimensioni oppure da tessuti sintetici, con processi di deterioramento di diversa natura: per irradiazione di luce ultravioletta, abrasione fisico-meccanica o per via termica». A spiegare questa differenza è Alessia Aprea, ricercatrice senior Area Seta-tessile di Innovhub SSI, che spiega come il settore produttivo che principalmente impatta sul rilascio di microplastiche nell’ambiente sia quello dei tessili sintetici, il quale è stato calcolato produca il 35% di tutte le microplastiche rinvenute fino a ora negli oceani. Per quanto riguarda il settore cartario, invece, non esiste uno studio sistematico che dia una percentuale precisa di quanto sia il rilascio.

Il problema è l’impatto delle microplastiche su ambiente e salute umana, «avviene per due tipologie di danni, diretti e indiretti» afferma la ricercatrice, «i danni diretti derivano dall’ingestione delle microplastiche; mentre gli effetti indiretti sono dovuti a tossicità per eventuale presenza di microinquinanti come additivi per fluorurati, interferenti endocrini o inquinanti organici persistenti, inoltre le microplastiche possono agire – sempre per via indiretta – come vettori di virus e batteri. Si stima che vengano ingerite dall’uomo circa 11mila particelle all’anno».

Le norme

Dal punto di vista della legge, ad oggi non esiste una normativa specifica sulle microplastiche; «concernente a questo argomento, c’è la normativa europea recepita in Italia con il decreto legge 196/2021 che riguarda la limitazione nell’uso delle plastiche monouso e che ipotizza che il limitare la produzione di macroplastiche possa ridurre il rischio di rilascio di microplastiche secondarie. La legislazione europea, sempre attraverso Echa, sta promuovendo intanto l’introduzione della restrizione dell’utilizzo intenzionale, quindi di microplastiche primarie intenzionalmente aggiunte nei prodotti». La previsione, spiega Aprea, è che la legge possa entrare in vigore nella seconda metà del 2022 e «prevederà una serie di restrizioni all’immissione di microplastiche, da sole o in miscele, all’interno di prodotti commercialmente utilizzati. Inoltre sono previsti anche obblighi di fornire istruzioni per l’uso e lo smaltimento, e l’obbligo di monitoraggio dell’efficacia di queste istruzioni, proprio per contribuire alla riduzione del rischio di rilascio di microparticelle». Saranno previsti ovviamente dei periodi di transizione, precisa Aprea, in modo che ogni azienda abbia la possibilità di adeguarsi a quanto stabilito. «Le limitazioni prevedono un uso intenzionale con concentrazione non superiore allo 0,01% in peso di particelle con un raggio dimensionale compreso tra 1 nm e 5 mm, e di microfibre comprese tra 3 nm e 15 mm. Non verranno considerate microplastiche i polimeri naturali, sempre che non abbiano subito alcuna modificazione chimica se non l’idrolisi, i polimeri biodegradabili e polimeri con solubilità in acqua maggiore di 2 g/l. Ovviamente sono previsti dei prodotti in deroga: quelli per cui non si ritiene ci sia un effettivo rilascio nell’ambiente di microplastiche; i prodotti o settori già regolamentati da altre normative; oppure nel caso in cui l’impatto socio-economico nell’introdurre la limitazione sarebbe troppo gravoso per le aziende o il settore produttivo».

Il momento delle analisi

Come determinare quindi la presenza e il rilascio di microplastiche? Anche in questo caso il problema è la mancanza di un metodo ufficiale standardizzato. «Ci sono linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità e diversi tavoli a livello degli standard ISO e CEN che riguardano principalmente la determinazione delle microplastiche, sia qualitativa che quantitativa, però soprattutto nel settore tessile che, come detto, è uno dei settori maggiormente coinvolti in questa problematica» precisa Aprea e spiega che quello di analisi delle microplastiche è un processo multistep. Nello specifico prevede: una preparazione del campione, un’estrazione successiva e purificazione attraverso diverse tecniche – che vanno adattate alla tipologia di campione –, una filtrazione su appositi filtri e l’identificazione e quantificazione delle particelle polimeriche. «Queste sono tutte le tecniche analitiche utilizzate, per quanto siano state indicate come migliori tecniche la microscopia infrarossa e la microscopia Raman, perché consentono di analizzare le particelle da un punto di vista sia morfologico sia di caratterizzazione chimica».

Innovhub si è dotata del microscopio infrarosso con cui ha effettuato le prime analisi di microplastiche, iniziando a valutare anche campioni provenienti dal mondo della carta.

Le microplastiche nel settore carta

Si è detto che le microplastiche sono contaminanti ubiquitari, quindi come tali è ragionevole e probabile che possano entrare anche nel processo cartario. «In realtà la potenziale immissione all’interno di questo processo può avvenire da moltissime fonti» spiega Graziano Elegir, responsabile Area Carta/Seta-tessile di Innovhub SSI, «dall’acqua in entrata, dalle impurezze della materia prima, fino ad arrivare alla logistica e ai macchinari, e persino a microplastiche potenzialmente presenti in additivi chimici o derivanti dalla frammentazione di prodotti multimateriali o di coating di natura sintetica durante il processo di riciclo». Tutte queste potenziali fonti possono generare un accumulo all’interno del processo produttivo e un possibile rilascio non intenzionale, «in tutti questi casi quindi si deve parlare di microplastiche secondarie ovvero non intenzionalmente immesse. Inoltre il rilascio può essere in aria, acqua, ma anche presente in scarti e fanghi di processo». Al momento non è dato capire se tutto questo costituisca un serio problema per il settore cartario, per il quale, spiega Elegir, ci sono ancora pochi dati, «esiste una stima abbastanza recente dell’istituto finlandese VTT – Technical research centre of Finland – che parla di un rilascio da parte dei processi inferiore al 2%; numeri molto più bassi rispetto a quanto presente in altri settori». Una problematica che però sarà sempre più di interesse è il rilascio di microplastiche dal prodotto finito.

Da questo punto di vista, vi sono due punti importanti da considerare: un potenziale rilascio di microplastiche nel contatto alimenti e un rilascio nei processi di compostaggio da prodotti a base carta ma multimateriali, per esempio quelli con una laminazione in plastica. «Questo è un aspetto abbastanza critico» dice Elegir «che andrà studiato molto bene. Negli impianti di compostaggio si ha una disintegrazione del materiale e quindi, a seguito della frammentazione e biodegradazione della parte carta, resta la problematica di cosa accada alla parte plastica che può subire delle modificazioni meccaniche, ovvero una parziale degradazione, e portare a un rilascio non intenzionale all’interno del compost che è poi utilizzato come ammendante nel suolo. Un problema dunque da monitorare». In teoria, precisa il responsabile, negli impianti di compostaggio dovrebbero entrare solo le carte accoppiate con polimeri biodegradabili, ma purtroppo non è così.

Altra problematica è rappresentata dai prodotti chimici: nel settore carta se ne utilizzano molti, per quanto una larga parte di tali polimeri è solubile in acqua e non è solida.

Lo studio prelimilare

Lo studio condotto da Innovhub si è posto alcuni precisi obiettivi: verificare la potenziale presenza di microplastiche nel processo di riciclo, capire quali tipi di polimeri possano essere rilasciati sotto forma di particelle solide e capire se queste siano o meno microplastiche. «Abbiamo analizzato diversi campioni, alcuni in cui ci si aspetta la presenza perlomeno di plastiche e altri prodotti neutri in cui non era ipotizzabile trovare qualcosa. Su scala di laboratorio abbiamo mimato il processo di riciclo, utilizzando il metodo per la riciclabilità UNI 11743; abbiamo trattato i campioni con gli step di processo previsti dal metodo, quindi con tutti gli screen che permettono di eliminare una larga parte di eventuali frammenti; e ci siamo concentrati sulle acque di processo nelle quali restano le particelle più piccole non intercettate dagli screen o durante la formazione del foglio. L’acqua è stata poi trattata direttamente o con pretrattamenti prima di effettuare l’analisi in Microscopio FTIR». Nelle acque di cartiera spesso vi è un’elevata concentrazione sia di materiale inorganico sia di fibre fini. È stato quindi necessario, spiega Elegir, procedere con pretrattamenti che consentissero la sedimentazione del materiale inorganico.

I risultati

I risultati sulle carte sono stati diversi. Sulla carta politenata: «abbiamo trovato 5 particelle per litro di soluzione che potevano essere classificate come microplastiche, con una dimensione intorno ai 60 micron e ciò che abbiamo rilevato è stato polietilene, coerentemente a quanto ci si aspettava da una carta di questo tipo». Si è detto come non vi siano limiti soglia definiti, ma se confrontato con quanto rilevato nei lavaggi del tessile, 5 particelle in un litro sono un valore piuttosto basso. Inoltre «abbiamo fatto un rapporto tra il peso di polietilene che avevamo all’interno del prodotto spappolato e quanto ne trovavamo in peso, e ragioniamo dalle parti per milione alle parti per bilione. Quindi molto poco rispetto a quanto materiale avevamo in partenza».

Sulla carta da stampa patinata, invece, non è stata rilevata alcuna microplastica.

Mentre la carta tissue ha dato qualche problematica in più. «Abbiamo trovato della poliammide» prosegue Elegir. «Ovviamente non è la stessa che troviamo nelle fibre tessili, ovvero il nylon; un’ipotesi potrebbe essere che possa derivare da altri tipi di poliammidi presenti nelle resistenze a umido». Quindi per quanto non si possa definire con esattezza di cosa si tratti, c’è qualcosa di rilasciato probabilmente dalle resine per la resistenza a umido; anche in questo caso, però, a livello numerico è sempre poco.

Sul cartoncino da riciclo contenente parecchia lignina, invece, al momento non si è riusciti a ottenere risultati coerenti, non è determinabile.

Quelli raccolti da Innovhub sono solo risultati preliminari, «sicuramente l’analisi delle microplastiche è piuttosto complessa e richiede, almeno per quanto riguarda il nostro laboratorio, un’ulteriore messa a punto dei metodi, in particolare per i pretrattamenti. C’è bisogno di verificare ancora la ripetibilità della misura e di analizzare anche la possibilità di contaminazioni ambientali». Tuttavia delle considerazioni possono già essere fatte: le quantità di microplastiche trovate sono sostanzialmente trascurabili. Certamente si dovrà procedere negli studi, «c’è bisogno di indagare più a fondo, studiare l’influenza di tempi di spappolamento, valutare l’accumulo su scala di laboratorio, e trovare un metodo per ricircolare le acque e valutare il potenziare accumulo. Oltre ovviamente ad analizzare campioni reali di acque e di fanghi di cartiera per verificare poi, su scala reale, cosa davvero accade».