Siamo al confine tra pittura e scultura, tra bidimensionale e 3D. Tra i suoi ispiratori ci fu Joseph Cornell, artista surrealista degli anni Trenta, che assemblava piccoli mondi misteriosi e giocosi, che Chiara Passigli realizza con oggetti trovati, assemblati e dipinti da lei e che colloca in meravigliose piccole wunderkammer sottovetro. Preparatevi a un viaggio nel paese delle meraviglie.
«Piccoli mondi in scatola», «camere delle meraviglie», «universo e bonsai di poesia e ricordi», piccole «wunderkammer» che racchiudono ciascuna un racconto misterioso e poetico, mondi fatti di oggetti diversi e lontani tra loro, collezionati, cercati o spesso semplicemente trovati: così sono stati definiti i lavori dell’artista Chiara Passigli che colpiscono per la densità emotiva e la cura minuziosa di dettagli in miniatura.
Sono «piccole cosmogonie solenni e portatili», come ben descritto dall’amico e artista Luigi Serafini, «che sicuramente entreranno in tante case a creare angoli aurei di riflessione e/o meditazione, così come si addice alle manifestazioni generose dell’Arte». Sì perché di arte si tratta: un’esperienza artistica lunga tutta la sua vita, una vita in ascolto di ciò che si mostra ai suoi occhi, l’arte e la natura, e un lavoro di rielaborazione di ciò che ha accumulato in tanti anni, sia in senso emotivo sia concreto.
Abbiamo conosciuto Chiara Passigli nell’occasione di una sua recente esposizione milanese e ci ha affascinato per la sua capacità di esprimere autenticamente il proprio piano emozionale con oggetti e dipinti caratterizzati da una ricerca quasi ossessiva del dettaglio, in una maniera magicamente surreale. Nata a Firenze e milanese di adozione, Chiara ha vissuto, studiato e lavorato a Milano. Studia al Liceo Artistico e alla Facoltà di Architettura di Milano e comincia prestissimo a lavorare per tanti anni come illustratrice per libri e riviste (“Dove”, “Anna”, “Bella”…). E dopo la lunga esperienza editoriale, dalla fine degli anni Novanta si dedica a una ricerca al confine tra pittura e scultura: opere affascinanti che sono esposte in maniera permanente alla Galleria L’Affiche www.affiche.it in via dell’Unione 6 a Milano. Innamorata del lavoro fatto a mano e in particolare delle scatole, ci racconta un po’ di sé e del suo lavoro: ambiti per un’artista così inscindibilmente legati. E nel suo cassetto dei sogni, una Torre di Babele fatta di carta e tante opere dipinte.
Fiorentina di nascita, milanese di adozione: raccontaci di te, come è nata questa passione?
«Sono nata in una famiglia in cui la musica e l’arte sono molto amate, quindi sono cresciuta sfogliando libri e frequentando mostre. Fin da bambina mi piaceva disegnare, cucire, costruire e questa mia inclinazione è sempre stata incoraggiata.
Una mostra in particolare ha lasciato il segno: quella di Joseph Cornell a Firenze, nel 1981. Ero una ragazzina, ma la magia e la poesia delle scatole surrealiste mi sono entrate profondamente nel cuore. Poi però ci sono voluti parecchi anni prima di iniziare a lavorare in quella direzione».
Come questa passione si è trasformata in una vera professione?
«Anche i miei studi sono stati scelti tenendo conto del mio interesse per l’arte: ho frequentato la Scuola Media Vivaio, dove ho studiato flauto traverso, e poi il Liceo Artistico. Mi sono iscritta alla Facoltà di Architettura, dove ho fatto diversi corsi ed esami ma non mi sono laureata, perché nel mentre ho iniziato a lavorare come illustratrice per l’editoria e il lavoro – che amavo molto – ha preso il sopravvento. Ho lavorato per vari anni per libri e riviste.
Intanto ho iniziato a conservare oggetti, foglie, pietruzze, brandelli di stoffa; e a disegnare, a comporre, a fotografare. Piano piano tutto è confluito nelle prime scatole, che all’inizio erano piuttosto piccole e non avevo alcuna intenzione di commercializzare».
C’è stato un evento o una situazione che abbia rappresentato per te la svolta?
«Grazie agli amici che vedevano le mie creazioni e ne erano entusiasti, mi sono decisa a farle vedere ad Adriano Mei Gentilucci, il direttore della Galleria L’Affiche, con cui ancora lavoro. Lo sguardo e il sostegno di un gallerista sono molto importanti per pensare al lavoro in maniera più seria e per avere una motivazione più forte. Quando ho portato le mie scatole alla galleria per la prima volta, sono state sistemate su vari tavoli e scaffali, per guardarle tutte insieme; a un certo punto è arrivato il ragazzo del bar con il vassoio dei caffè ed è rimasto conquistato dai miei lavori: pare non avesse mai degnato di uno sguardo nessun’altra opera esposta!».
Come nasce una tua opera? A cosa ti ispiri?
«A volte sono un po’ invidiosa di quegli artisti che sanno cosa vogliono dire, le cui opere hanno un significato evidente. Per me non è così. Non so esattamente come nasce una mia opera: sono pensieri, oggetti, colori, materiali che entrano in una costellazione di cui io sono artefice e spettatrice al tempo stesso. È un brivido, una tensione, un mistero che si compie. Una magia! Le ispirazioni sono tantissime, perché cerco e vedo moltissime cose, sono molto curiosa sia del mondo dell’arte sia di quello naturale».
Qual è il filo conduttore?
«Con il mio lavoro cerco di creare una comunicazione con l’osservatore, perché sono convinta che l’opera si compia nel momento in cui qualcuno la guarda; io faccio la mia parte, ma lo spettatore usa la suggestione del mio lavoro per scoprire qualcosa di sé».
Parliamo dei materiali: quali usi nel tuo lavoro?
«Amo materiali diversi, che trovo quasi sempre per caso. Negli anni ho raccolto sassolini, biglie, legnetti e foglie secche, carta e libri, frammenti di ceramica, pezzettini di plastica “masticati” dal sole e dal mare, chiodi arrugginiti. Scelgo ogni cosa con estrema cura, anche se poi possono passare anni prima di riuscire a usarla».
Parliamo della carta: quale tipo di carta si trova nelle tue opere?
«La carta è un materiale meraviglioso, molto vario e versatile. Io prediligo la carta dei libri vecchi, che trovo abbia un fascino speciale: anche se il libro non è più leggibile, è come se emanasse ancora il racconto o la poesia. Uso le pagine dei libri per costruire geometrie o oceani, oppure come sfondo dei miei lavori dipinti. Amo la carta giapponese – soprattutto Washi –, quella indiana, quella fatta a mano ad Amalfi, ma anche quella velina o quella da pacco marrone».
Da dove viene questa tua abitudine a conservare tutto? Gli oggetti che storia hanno da raccontare?
«Come dicevo, ogni piccolo oggetto che conservo è scelto con cura e conservato in ordine: anche se non sono maniacale, diciamo che mi oriento nel mio disordine! Gli oggetti da soli non dicono molto, ma quando riesco a trovare un accostamento giusto, gli elementi risplendono».
Il mistero delle scatole: grandi, piccole, miniature che contengono poesia pura. Come è nata questa passione? Cosa rappresenta la scatola?
«La scatola è un mondo. Un mondo contenuto, in cui ci si può immergere, sognare, immaginare… La dimensione è in funzione del contenuto, quindi ci sono scatole e teche di varie dimensioni e di vari materiali».
A quale opera sei legata di più e perché?
«Il legame con i lavori è una strana cosa, è un po’ simile a quello con i figli: li crei, ci passi del tempo, ci metti tutto l’impegno che richiedono, li ami, ma in realtà sono fatti per andare, per prendere la loro strada, per mettersi in relazione col mondo in modo autonomo. Non c’è un’opera a cui sono più legata, ognuna sprigiona il suo fascino speciale, anche per me! Però ce ne sono alcune che, magari dopo qualche anno, non mi piacciono più come prima».
Se pensi al futuro cosa vedi?
«Ho una lunga lista di progetti da realizzare fra cui una Torre di Babele fatta di carta e tante opere dipinte. E mi piacerebbe far espatriare le mie opere, perché mi piace molto viaggiare e sento forte l’attrazione per il resto del mondo».